Paesi sviluppati sono responsabili di un terzo della spazzatura globale, ma nei prossimi trent’anni l’Africa sub-sahariana potrebbe triplicare la produzione. Male l’Italia sui Raee. Varie soluzioni per il futuro, dai bidoni intelligenti ai robot per il riciclo.
A oggi, produciamo a livello globale circa 2,2 miliardi di tonnellate di spazzatura all’anno. Per visualizzare questo numero, supponiamo di inserire 2,2 miliardi di rifiuti all’interno di ipotetici bidoni, mettendoli poi in fila uno dopo l’altro. La fila si estenderà per circa quarantamila chilometri, una lunghezza pari alla circonferenza della Terra. Non stupisce dunque sentire la Banca mondiale avvertirci che, continuando di questo passo, i rifiuti potrebbero aumentare del 70% (circa 3,4 miliardi di tonnellate) entro il 2050.
I principali responsabili di questa produzione massiccia sono naturalmente i Paesi ad alto reddito: sebbene rappresentino solo il 16% della popolazione globale, generano più di un terzo (34%) dei rifiuti. La regione dell’Asia orientale e del Pacifico segue con un quarto della produzione globale (23%). Ma l’attenzione (soprattutto per il futuro) deve essere orientata altrove, soprattutto verso l’Africa sub-sahariana, i cui rifiuti dovrebbero più che triplicare entro il 2050, e l’Asia meridionale, dove raddoppieranno.
Questa previsione è particolarmente preoccupante per due ragioni. La prima è che i Paesi in via di sviluppo sono anche quelli dove il riciclo funziona peggio. Sempre secondo la Banca mondiale, nei Paesi ad alto reddito più di un terzo dei rifiuti viene recuperato attraverso il riciclo e il compostaggio. Questa percentuale crolla al 4% nei Paesi a basso reddito.
Inoltre, parliamo di nazioni già stracolme di rifiuti, nazionali e internazionali. A Dakar, capitale del Senegal, c’è la discarica di Mbeubeuss, che si gioca con quella di Bantargebang, in Indonesia, il primato della discarica più grande al mondo.
Aperta nel 1968, Mbeubeuss accoglie ogni giorno più di 1.300 tonnellate di rifiuti (circa 475mila tonnellate all’anno). Questa enorme montagna di spazzatura viene scalata ogni giorno da lavoratori che vivono nella discarica e che frugano alla ricerca di rame, plastica, ferro, alluminio per poi riutilizzarli o rivenderli. Le condizioni sanitarie sono pessime, e la costante respirazione di fumi tossici espone i lavoratori a numerose malattie.
Stesso discorso vale per Bantargebang, la discarica indonesiana dove i raccoglitori di rifiuti, noti come pemulung, si arrampicano per cercare scarti utili da rivendere. Secondo alcuni report, nel 2018 la montagna arrivava a oltre 40 metri, un’altezza particolarmente pericolosa – tant’è che nel 2017 un pemulung è rimasto soffocato dopo essere rimasto intrappolato sotto una valanga di spazzatura.
La più grande discarica di rifiuti elettronici (o e-waste) si chiama invece Agbogbloshie e si trova nei dintorni di Accra, capitale del Ghana. Ad Agbogbloshie ci sono a oggi più di 250 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, provenienti per l’85% dall’Europa. Si tratta di una vera e propria “città nella città”, dove vivono decine di migliaia di persone, che ormai hanno fatto dell’economia dell’e-waste la loro principale fonte di sostentamento.
C’è da ricordare inoltre che “rifiuti” è sinonimo di “emissioni”. La Banca mondiale stima che nel 2016 siano state generate dal trattamento e dallo smaltimento dei rifiuti 1,6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, pari a circa il 5% delle emissioni globali. Per questo, secondo Silpa Kaza, specialista in sviluppo urbano della Banca mondiale: “Il costo per affrontare gli impatti è di gran lunga superiore al costo per lo sviluppo e il funzionamento di sistemi per la gestione dei rifiuti. Le soluzioni esistono”, ha proseguito “e noi possiamo aiutare i Paesi ad arrivarci”.
Che aria tira in Italia
Nel nostro Paese non ce la passiamo molto bene dal punto di vista della produzione di rifiuti: il Sole 24 Ore riferisce che “il tasso di crescita dei rifiuti prodotti dalle imprese nel decennio 2010-20 è arrivato al 21,5%, mentre si è registrata una flessione del Pil dell’8,2%”. In Francia, per dire, i dati sono invertiti: i rifiuti prodotti in dieci anni sono diminuiti del 4,4%, mentre il Pil è cresciuto del 4,1%. In Germania, alla crescita della quantità di rifiuti (8,9%) è corrisposto però un incremento del 12,2% del Pil.
“Per ridurre le distanze dalle migliori esperienze europee è necessario potenziare i sottoprodotti, l’end of waste e il recupero energetico”, ha detto Donato Berardi, direttore del think tank di Ref ricerche, che ha studiato approfonditamente il tema.
I settori che stanno messi peggio sono arredamento, food & beverage e tessile (basti pensare che nel 2020, l’industria manifatturiera italiana ha generato circa 117 chilogrammi di rifiuti per mille euro di Pil, a fronte degli 86-87 chilogrammi di Francia e Germania). Gli scarti della lavorazione, gli imballaggi e i fanghi degli impianti di depurazione risultano i rifiuti più diffusi a livello nazionale.
“In Italia manca una visione sistemica e di medio e lungo termine”, commenta per Futuranetwork Eleonora Rizzuto, presidente dell’Associazione italiana per lo sviluppo dell’economia circolare (Aisec) e co-coordinatrice delgruppo di lavoro dell’ASviS sul Goal 12 dell’agenda 2030. “Assistiamo a piccoli interventi che mirano a risolvere piccole emergenze piuttosto che piani pluriennali. Va da sé che tutto ciò si può sviluppare se, di pari passo, vengono a cadere quegli impedimenti legislativi che a oggi non permettono di riutilizzare rifiuti o sottoprodotti in modo semplice, e se si sviluppa una politica di incentivi”. Rizzuto ha poi proseguito sulla necessità di coinvolgere il maggior numero di realtà possibili, per attivare un autentico processo di cambiamento. “La transizione verso un modello di economia circolare necessita di uno sforzo da parte dell’intera comunità che veda coinvolti tutti gli attori in gioco (decisori pubblici, imprenditori, fruitori di beni e servizi, consumatori, cittadini ecc.) in un processo bidirezionale, sia bottom-up che top-down”.
Raee: il tasto dolente
Secondo una ricerca di Ipsos ed Erion, gli italiani hanno in media nove apparecchi elettronici rotti o inutilizzati dentro casa. Si tratta dei cosiddetti Raee (acronimo che sta per “Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche”): nello specifico, l’81% degli intervistati ha dichiarato di possedere almeno un apparecchio ancora funzionante ma inutilizzato, mentre il 61% lo tiene a casa anche se è rotto. La domanda è: perché questa “sindrome da accumulo”?
Secondo lo studio il 39% degli intervistati pensa di poter riparare l’apparecchio, mentre un altro 30% di poter utilizzare le parti di ricambio. Il 23% invece ha dichiarato di non conoscere la corretta procedura di smaltimento e il 15% ha difficoltà a raggiungere un centro di raccolta.
Ovviamente, ci sono anche persone che smaltiscono i Raee, ma non nel modo giusto. Un intervistato su sei ha dichiarato di essersi disfatto di un Raee negli ultimi 12 mesi ma in modo inappropriato, gettandolo ad esempio nel bidone dell’indifferenziata. E questo è un problema enorme, per due ragioni: i Raee contengono decine di componenti e metalli preziosi particolarmente inquinanti; se riciclati bene, costituiscono invece un autentico tesoro. “Il quadro che ci presenta Ipsos è allarmante: sono davvero ancora troppi i Raee e i Rifiuti di pile e accumulatori dimenticati nelle case degli italiani, rifiuti che, se avviati al corretto riciclo, potrebbero rappresentare una miniera strategica di materie prime di cui il nostro Paese è sempre più povero”, ha detto Danilo Bonato, direttore generale di Erion, sistema multi-consortile no profit nato nel 2020 per la gestione dei rifiuti associati ai prodotti elettronici e per i rifiuti di prodotti del tabacco.
Ai primi posti tra i Raee dismessi in modo scorretto ci sono gli asciugacapelli (22%), poi tostapane e frullatori (20%) e caricabatterie per cellulari (18%) – che si spera diminuiranno di numero dopo la legge, approvata dal Parlamento europeo, sulla produzione di caricabatterie universali.
La conoscenza dei Raee lungo la Penisola non è molto diffusa. Il 44% degli intervistati ha dichiarato di averne già sentito parlare, ma questi si trovano soprattutto al Nord (47%) e al centro (46%), mentre il Sud e le isole (37%) restano indietro.
Altro problema sono i giovani: nonostante siano i principali destinatari dei dispositivi elettronici, sono i più carenti in materia. L’89% dei ragazzi e ragazze tra i 18 e i 26 anni dice di avere a casa un apparecchio elettronico o elettrico ormai inutilizzato e il 73% di non esserne disfatto anche se rotto. Solo il 26% dei giovani sa cosa significhi Raee e il 32% non conosce le conseguenze ambientali di un errato smaltimento.
“Informare sul fatto che questi rifiuti sono prima di tutto delle risorse e non semplici scarti è fondamentale, ancor di più se consideriamo che i rifiuti correlati ai prodotti elettronici sono quelli con il maggior tasso di crescita”, ha commentato Alberta Della Bella, senior researcher di Ipsos public affairs.
Ma come promuovere queste pratiche di riciclo? Per Rizzuto c’è bisogno di “piattaforme logistiche in grado di ottimizzare sia la raccolta in entrata che quella in uscita verso le più svariate realtà (di riciclo, di riuso e ove non possibile di disassemblamento dei componenti e delle materie prime). Inoltre occorrerebbe”, prosegue la presidente di Aisec, “predisporre campagne informative importanti su tutti i canali di informazione (pubblici e privati) nazionali e locali, sia tradizionali che social e tentare uno sforzo titanico di diffusione della cultura nelle scuole, università, luoghi di lavoro”.
Rizzuto si concentra poi sull’importanza dell’“interciclicità” e del “dialogo tra industrie”, “due concetti chiave per l’economia circolare: uno scarto di lavorazione può entrare in diversi cicli (l’“interciclicità”, ndr) o in filiere diverse rispetto a dove è stato generato; ne consegue che la creazione di reti è il passaggio fondamentale sul quale occorrerà concentrare gli sforzi per dare impulso a nuove pratiche di smaltimento per i Raee. È anche grazie alla rete e alla condivisione delle informazioni che si possono sviluppare nuove tecnologie”.
Verso Zeroforia
“Consideriamo una possibilità che pare improbabile: un mondo in cui la parola ‘spazzatura’ sarà obsoleta. Riuscite a immaginare questo futuro?” Parte da questo assunto uno dei capitoli più interessanti del saggio Immagina (Roi edizioni) scritto da Jane McGonigal, futurologa e game-designer. McGonigal prova con questo testo a stimolare il lettore sulla possibilità di creare futuri lontani e “apparentemente” impossibili, al fine di prepararsi a eventi imprevedibili (come guerre globali o crisi di mercato) ma anche favorire i futuri desiderabili. Un intero capitolo è dedicato alla “Zeroforia”, ovvero il sentimento positivo che deriverebbe da una società senza rifiuti. Vale la pena leggerne un passaggio, per capire meglio di cosa si parli.
“Gli imballaggi usa e getta non esistono più. La maggior parte delle persone passa settimane, anche mesi, senza buttare niente. I bambini crescono senza sapere cosa voglia dire ‘portare fuori la spazzatura’. Non si ha nemmeno più un cestino in casa! L’accumulo è ormai storia. La gente spende la maggior parte dei soldi in esperienze, non in cose. E tutto ciò che si possiede temporaneamente, lo si passa in fretta a chi ne ha più bisogno. Oppure lo si rimanda all’azienda produttrice, perché lo ricicli in qualcosa di nuovo. Zero sprechi è la nuova normalità. Stiamo bene, così bene che gli psicologi hanno inventato una nuova parola per definire questo stato: ‘zeroforia’, l’emozione positiva che definisce la vita in una società a zero rifiuti”.
Come si può arrivare a questo stato idilliaco? McGonigal delinea nel suo saggio una serie di azioni, centrate, ancor più che su un migliore riciclo, sulla riduzione dello spreco. Per arrivarci, nel suo “esercizio di futuro” McGonigal ipotizza di bandire la pratica della raccolta della spazzatura dal marciapiede, rimuovere i bidoni della spazzatura (per disincentivare lo spreco), gettare i rifiuti nei centri “pay-as-you-throw” (dove si pagherebbero cifre elevate per buttare anche un singolo sacchetto), imporre tasse salatissime sugli articoli venduti con imballaggi non compostabili. Non sarà “tutto bastone”, però, avverte McGonigal, ma anche carota. “Se il Paese ridurrà i rifiuti dell’80%, tornando ai livelli di spazzatura per persona del 1960, entro la fine dell’anno ogni residente riceverà un sussidio di diecimila dollari”, sussidio che verrà in parte pagato con i risparmi ottenuti dalla gestione dei rifiuti.
La vera sorpresa è che alcune di queste soluzioni già esistono. In Corea del Sud tutti i rifiuti alimentari devono essere separati dagli altri rifiuti e pesati in “bidoni intelligenti”, dotati di bilance e lettori di identificazione a radio frequenza (Rfid). Le persone pagano così per ogni chilo di spazzatura prodotta. Il risultato è che il Paese ora ricicla il 95% dei rifiuti alimentari, mentre nel 1995 era solo il 2%.
In altri programmi pay-as-you-throw la spazzatura può essere raccolta soltanto in speciali sacchetti blu, sottoposti a tariffa forfettaria. Più scarti si producono e più sacchetti si devono comprare. In questo modo Taipei, capitale di Taiwan, ha visto scendere il volume complessivo dei rifiuti del 35%, da quando si è adottata questa pratica nel lontano 1999.
Ma le soluzioni innovative non si fermano qui. Il sito StartUs insights ne ha elencate alcune molto interessanti, a partire dall’Internet dei rifiuti (che si ispira all’Internet delle cose, sistema di cooperazione tra i dispositivi elettronici presenti in uno stesso luogo). Questo sistema si basa appunto sull’idea che la gestione e il riciclo dei rifiuti possano essere resi più efficienti tramite la comunicazione tra diversi dispositivi. Nello specifico, si parla di sensori del livello di riempimento dei cassonetti, contenitori intelligenti o sensori di valutazione della qualità dei materiali. Per esempio, il monitoraggio dei livelli di riempimento nei bidoni della spazzatura consentirebbe di garantire un ritiro tempestivo e una pianificazione migliore dei turni di lavoro degli operatori ecologici.
C’è poi il riciclo chimico, attraverso cui si possono creare ottime materie prime secondarie (scarti che possono essere immessi nel sistema economico come nuove materie prime). Due esempi: la startup statunitense Refiberd – che combina intelligenza artificiale, robotica e riciclo chimico verde per convertire tessuti usati in kit di filati in poliestere riciclato e cellulosa, da utilizzare come materiali vergini nella produzione tessile. Plastic Back è invece una startup israeliana che sfrutta l’ossidazione chimica per il riciclo della plastica.
Ma non c’è solo riciclo chimico (impiegato perlopiù per materiali difficili come la plastica). Esistono altri materiali, come metalli e vetro, il cui riciclo è relativamente più semplice. La startup inglese Ever resource promuove il riciclo delle batterie piombo-acido, per favorire l’utilizzo di piombo riciclato nelle nuove batterie. Fili Pari è invece una startup spagnola che riusa il marmo abbandonato in discarica per creare, attraverso la combinazione con altri tessuti riciclati, dei vestiti.
Se da una parte si parla di ottenere materiali migliori dalle operazioni di riciclo, dall’altra si tratta anche di saper recuperare i materiali giusti. È qui che intervengono i robot di riciclo, che automatizzano e rendono più efficienti i sistemi di classificazione e smistamento. Questi robot, attraverso l’intelligenza artificiale, aumentano la velocità di prelievo, riducono al minimo gli errori e valutano il potenziale di riciclo del singolo rifiuto. In questo stesso insieme rientrano Ursa Robotics, startup con sede nel Regno Unito che sta lavorando a cassonetti automatizzati capaci di muoversi autonomamente e rientrare in discarica una volta pieni, e Sortera Alloys, startup statunitense che offre un sistema automatizzato di selezione dei metalli.
Altre aziende stanno invece sviluppando tecnologie di riciclo per convertire i rifiuti solidi e organici in energia e altri prodotti chimici. Alcune stanno puntando sui digestori anaerobici – processo biologico che si serve di batteri per trattare i rifiuti organici e generare biogas. La crescente domanda di energia pulita, fa notare StartUs insights, sta generando anche un forte interesse per le soluzioni di termovalorizzazione.
Lo spreco alimentare contribuisce a circa l’8% delle emissioni di gas serra di origine antropica, e deviare gli scarti alimentari lontano dalle discariche è un altro snodo molto importante, anche per consentire una migliore raccolta dei materiali riciclabili. Per questo esistono startup come BicyCompost, che raccoglie (su bici elettriche) rifiuti alimentari in giro per Bordeaux per poi trasformarli in compost da distribuire gratuitamente agli agricoltori partner. Oppure c’è Biovert Protein, azienda tailandese che utilizza le “mosche soldato nere” per la bioconversione dei rifiuti alimentari in cibo per animali ad alto contenuto proteico, olio e fertilizzanti.
Infine, un ruolo importano lo giocano le analisi dei big data, attraverso cui si possono identificare inefficienze e migliorie nella gestione dei rifiuti. C’è ad esempio Waste Labs, una startup di Singapore che ha sviluppato una piattaforma di ottimizzazione della logistica dei rifiuti, oppure Recyda, azienda tedesca che si occupa della valutazione della riciclabilità degli imballaggi.
C’è da dire che, nonostante le fosche previsioni per il 2050, a sentire queste soluzioni per il futuro “Zeroforia” sembra molto più a portata di mano. Forse basta solo saper cercare bene.
Flavio Natale