A causa dell’epidemia dell’ormai noto Coronavirus l’Italia sta vivendo una situazione di emergenza che ha pochi precedenti.
Si dice comunemente che nulla più debba tornare come prima in un’assenza completa di governo della globalizzazione: dall’immigrazione alle epidemie, all’ambiente, ai diritti umani violati, ecc.
In questa epoca di emergenza, molti economisti iniziano a parlare di “slowbalization”, termine coniato poco più di un anno fa dal settimanale britannico “The Economist”. Ricordo lo scetticismo, anche motivato all’epoca, verso questa definizione che aveva l’intento di descrivere il rallentamento su scala mondiale della globalizzazione. Ironia della sorte: oggi siamo tutti fermi.
In una recente intervista a Massimiliano Valerii, il direttore generale del Censis, si denuncia un certo tipo di società, che tende a chiudersi in se stessa cercando proprie soluzioni, in un contesto europeo non sempre omogeneo e spesso non adeguato a dare risposte immediate.
Ma un anno fa è un’era fa e oggi siamo sollecitati a riaprire dibattiti ed a fornire contributi su altri presupposti, come dolorosamente sappiamo.
Questa fase difficile sta mettendo in evidenza la centralità dell’innovazione, ma anche della coesione sociale. Dobbiamo ripartire da questi due elementi per una ripresa verso uno sviluppo equo e sostenibile basato sull’uso intelligente dell’innovazione tecnologica e della trasformazione digitale. Quindi anche in questa sede torno ad insistere sulla necessità di ricorrere all’uso della blockchain per tracciare materie e scambi, in grado di mettere in sicurezza sistemi sostenibili e qualità dei beni.
Appena qualche mese fa ragionavo con alcuni colleghi di questi aspetti, fondamentali per la mia generazione ma vitali per la generazione futura.
Dopo appena qualche settimana inserisco un fatto nuovo, inaspettato per noi, generazione del boom economico, della crescita industriale, dell’onnipotenza sentita davvero in tutto ciò che pensiamo e facciamo. E questo fatto non mutabile è il doverci riconoscere vulnerabili e – nel minimalismo dei nostri pensieri più semplici – incapaci di esercitare il controllo delle nostre vite.
Le grandi crisi ribaltano le vecchie “piramidi dei bisogni”. Tutte le civiltà queste cose le hanno sempre sapute. La solitudine forzata ci sta forse indicando una via?
Ma cerchiamo di non perdere tempo prezioso, è tardi.
Prendiamo due ambiti in queste poche riflessioni, uno afferente al ciclo dei rifiuti e l’altro alla ripresa produttiva, entrambi interessano il modello economico circolare.
Il primo è l’emergenza rifiuti. Si auspica ad una proattività strategica e a norme less-bureaucracy. L’emergenza sanitaria e il conseguente rallentamento di alcune attività industriali, il blocco addirittura per mole altre, stanno mettendo a dura prova la filiera della raccolta differenziata, determinando la saturazione degli stoccaggi nell’impossibilità – precedente all’epoca Covid-19 – di spedire carta e plastica in Cina e in Oriente. In ogni caso tutte le esportazioni di plastiche riciclate, anche quelle consentite, sono sospese. Parlando sempre di plastica, anche quella riciclata dall’industria italiana è in sofferenza; infatti le industrie del giocattolo e dell’arredo urbano sono chiuse perché non considerate strategiche. Altro cenno è quello rivolto ai rifiuti di imballaggi in acciaio, solitamente raccolti in piattaforme (rottamai) e riciclati nelle acciaierie, il 90% delle quali hanno fermato le attività.
Il secondo tema riguarda la ripartenza ed alla difficile decisione su chi far iniziare a produrre.
Il “come” dovrebbe interessare almeno quanto il “quando”.
Qualche giorno fa il Presidente di UNIC – Concerie Italiane Gianni Russo ha scritto una lettera al Governo per evidenziare alle istituzioni la necessità di una graduale riprese delle attività del settore. Ora, che se ne dica, l’industria conciaria è considerata – anche a ragione – tra le più inquinanti ma, occorre sottolineare, come essa sia tra le più rappresentative del modello economico circolare perché ricicla gli scarti della macellazione delle carni. E questo è un fatto millenario. Al di là della grave situazione economica degli addetti ai lavori già fermi da diverse settimane – al pari della maggior parte delle produzioni – Il blocco dell’attività conciaria ha determinato anche l’interruzione del commercio di pelli grezze, con problemi di gestione da parte dei fornitori, i macelli, la cui capacità di stoccaggio è limitata, sia in termini di spazio che di tempo, visto che le pelli sono materiale organico deperibile. Sembra infatti che nessuna discarica o impianto di incenerimento le stia accettando come nuovo rifiuto. Secondo UNIC, la situazione potrebbe essere ancora gestibile nel caso di una riapertura delle attività quanto prima, ma rischia di diventare estremamente problematica se il blocco dovesse protrarsi. Secondo chi scrive, si dovrebbe anche intervenire – una volta per tutte – alla realizzazione di impianti di riciclo del non venduto e degli scarti in pelle.
Anche in questo caso, agire con tempestività e con modalità innovative aiuterebbe non un settore produttivo – concia e pelli – ma due almeno, se includiamo il settore della macellazione per carni alimentari che riforniscono i nostri supermercati.
In conclusione, e scusandomi per aver tentato l’abbinamento quasi azzardato tra ciclo dei rifiuti e ripresa produttiva in tempi in cui si ragiona su ben altri temi – di sopravvivenza al virus -, mi rivolgo agli estimatori del pensiero keynesiano citando un episodio che ho riletto di recente. Nel 1930, Keynes si prese una pausa dallo scrivere sui problemi dell’economia in senso stretto; eravamo tra le due guerre e si lasciò andare ad un po’ di futurologia. In un saggio intitolato “Possibilità economiche per i nostri nipoti”, egli ipotizzava che entro il 2030 gli investimenti di capitale e il progresso tecnologico avrebbero aumentato il tenore di vita fino a otto volte, creando una società così ricca che la gente avrebbe potuto lavorare appena quindici ore alla settimana, dedicando il resto del tempo a svago ed altri “scopi non-profit.”
Questa trasformazione non ha ancora avuto luogo, così come la immaginava l’economista.
Ma se ci soffermiamo a riflettere sulla causa pandemica che ci obbliga a nuove modalità lavorative, lo smart-working, e per taluni a fermarsi completamente – perché in cassa integrazione – dando spazio a lavori solidaristici, appunto non profit, e ad alcune aziende, quelle della Moda ad esempio, a convertire interi rami produttivi per la produzione di mascherine e gel totalmente donati alla Protezione Civile, ci rendiamo facilmente conto di essere in anticipo di 10 anni rispetto a quanto immaginato da Keynes.
Un nesso di reciprocità, un nuovo collegamento sinallagmatico tra cittadinanza ed emergenza, in ambiti ove lo Stato non arriva direttamente ma di cui sia acceleratore.
Allora, in ottica diacronica, rivolgiamoci al nuovo tempo, incoraggiando una metamorfosi in chiave di non completa rottura con il passato, cercando le prassi virtuose di produzione e di consumo responsabili che siamo stati capaci di implementare, miglioriamole, in un’economy of trust che tracci nuove frontiere per la Sostenibilità con supply chain più corte e tracciate.